Biografia

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Giancarlo Vissio nasce a Torino nel 1965.
Si laurea in Lettere Moderne (Curriculum Scienze Storiche) presso L’Università degli Studi di Torino nel 1995.
Attualmente vive a Sant’Albano Stura, nel cuneese, e insegna Letteratura e Storia presso l’I.I.S. “G. Vallauri” di Fossano.
Cofondatore e primo Presidente dell’Associazione Culturale
LiberaMente Santalbanese (www.liberamentesantalbanese.it)

Ha pubblicato:

- Sant’Albano e Santalbanesi attraverso il ‘900, Bottega della Stampa di Fossano, patrocinio del Comune e della BBC di Casalgrasso e S.Albano ,2006
- L’amante perfetta, Scritturapura , 2011 (www.scritturapura.it/autori.html)
- Il tempo migliore della nostra vita, in Racconti tra la collina e il mare, n.16, Marco Sabatelli Editore, 2012 (www.sabatelli.it/) - Menzione della Giuria, XXIV Edizione del Premio Piemonte Letteratura, (Leggi su culturaesocieta.gsvision.it)
- L’Alba di PIER, in Racconti tra la collina e il mare, n.18, Marco Sabatelli Editore, 2014 (www.sabatelli.it/)
- Marguareis, la versione di Bart, Araba Fenice, 2014
- Il menù di Pier, Menzione della Giuria, XXIII Edizione del Premio Piemonte Letteratura, (Leggi su culturaesocieta.gsvision.it). Racconto.

            


Di recente insignito del Primo premio assoluto sezione Narrativa breve su Identità e Territorio - XXVII Edizione del Premio Piemonte Letteratura

Per il seguente racconto :

L’ultima lacrima

Lena si irrigidì e come un gatto selvatico si preparò a saltare agli occhi di quel damerino impomatato che le stava davanti, seduto alla scrivania.  Lei, vedova di guerra, di quella Grande, quella che aveva strappato centinai di giovani dai paesi delle valli vent’anni prima,  si trovava ora con  un figlio, l’unico maschio, in Russia. Un’ingiustizia diceva, la Patria le aveva già preso Gioanin e non poteva ora portarsi via anche il suo Cesco. Una misera pensione di guerra, due giornate di terra da farci il fieno per le vacche in stalla, un po’ di patate e quattro capre, era tutto quello che le rimaneva.
- Viale Maddalena, di Giuseppe, vedova Bergesio Antonio, caduto a Vittorio Veneto -  aveva ripetuto per la seconda volta a quel viscido militare del Distretto di Cuneo che le faceva pesare di non sapere bene l’italiano. Avrà avuto l’età del suo defunto marito, occhi annacquati e capelli neri, corti e unti. Vestiva una divisa impeccabile, appuntata di stemmini sul bavero e con due strisce rosse sulle spalle. Lei lo pregava cercando la forma più gentile ma dignitosa che potesse, ma infarciva la sua afflizione di parole in piemontese e di implorazioni alla madonna, madre addolorata. Quello le rispondeva spolverando formule burocratiche che la confondevano con tutte quei numeri di ordinanze, leggi, disposizioni. Lena si vergognava, si stringeva nel suo lungo vestito nero che le cadeva fino sulle scarpe buone, quelle della festa, e si tirava sulle spalle lo scialle di lana, anche questo nero, triste come il lutto che portava da vent’anni. Batteva un piede nervosamente e ormai disperava di ricavar qualcosa di buono da quel cuore di pietra che la tormentava in quell’ufficio. Se la faccenda continuava ad andare  per le lunghe rischiava pure di perdere l’ultima corriera per tornare a Boves.
-Madama Diale…-  la ammansì maldestramente il burocrate
-Viale! Viale Maddalena- incalzò sempre più stizzita.
-Si.. Madama Viale- ripeté, ostentando una falsa benevolenza. Avrebbe dovuto chiamarla “signora”, perché il “Madama”  lo si dava solo alle ricche di città, mogli di dottori, avvocati o banchieri,  non a una  contadina di montagna semi analfabeta.
-Non ci sono le carte  giuste- le diceva scuotendo la testa-  ci vuole la dichiarazione del maresciallo dei carabinieri di Boves,  e il foglio di precetto di suo figlio Francesco-
-Ma  il precetto di Cesco ce l’avete fatto voi del Distretto. Perché lo chiedete a me?-
-Le carte, le carte Madama Diale..-
-Viale, Viale Maddalena- ribattè sempre più indispettita, stringendo i pugni e trattenendo le lacrime davanti a tanta ottusa cattiveria.
-Ma vedo qua, nella stato di famiglia, che oltre al vostro Cesco avete una figlia un anno più giovane. Catterina… classe 1919…- le disse con un tono che subito la fece rabbrividire -  Perché non me la mandate qua che in qualche modo ‘ste carte le facciamo passare?-
-Bastardo!!-  gli urlò Lena, e come imbracciando una falce da segala fece un largo giro coll’avambraccio sulla scrivania del malcapitato, mandandogli all’aria calamaio, penna, scartoffie e un bustino del duce in finto marmo nero. Uscì  imperiosa da quell’ufficio con le unghie che le penetravano nelle mani, tanto stringeva forte i pugni. Corse verso la stazione delle corriere mentre il giorno stava rabbuiandosi e riuscì a non perdere l’ultima corsa per casa. Si sedette su un sedile in fondo e appoggiando la testa al finestrino non trattenne più le lacrime che le rigavano senza freni il volto scavato. Si abbandonò a quel pianto sommesso senza alcuna consolazione. Attorno una folla di povera gente che come lei ritornava su in valle. Chi era venuto a vendere qualche pollo, qualche dozzina di uova, due conigli, chi per comprare zucchero o caffè al mercato nero, chi per trovare parenti in città. Nessuno le si avvicinò, le chiese motivo di tale pianto, le offri consolazione interessandosi al suo caso, non perché si fosse spenta l’umanità in quel popolo rassegnato, ma  perché ognuno portava con sé il suo fardello di dolore. Due anni di guerra avevano già falciato sui fronti figli e mariti e una pesante cappa gravava sul dispiegarsi di nuovi eventi futuri.
Lena si asciugò le lacrime. Gli occhi le bruciavano, non riusciva a mettere a fuoco la lettera, che teneva tra le mani, l’ultima ricevuta dal suo Cesco. Quel miserabile del Distretto  l’aveva umiliata. Faceva tanto il gradasso nella sua bella divisa stirata, al caldo degli uffici, a tormentare la povera gente. Era partito soldato lui? Era andato a servire la patria sul fronte, come aveva fatto il suo sposo, caduto proprio nell’ultima battaglia della Grande guerra? Il suo Gioanin… si erano sposati qualche mese prima che fosse chiamato alle armi nel ’16 e subito le aveva dato un figlio, Cesco, bello sano,  buono per il lavoro di semina, per i tempi a venire quando suo padre si sarebbe incurvato col passare degli anni. Le aveva dato poi una figlia, Catterina, concepita al tempo della licenza agricola, nel luglio del ’18, l’ultima volta che era venuto a casa. Due figli che non avevano conosciuto il padre, due bocche da sfamare senza l’aiuto di un uomo. Aveva conosciuto anni magri di fatiche inumane che l’avevano ridotta  quasi come una bestia tra le sue bestie in stalla, tanta la fame che il pan barbarià, le castagne secche e i funghi non estinguevano. E ora… ora che Cesco si era fatto uomo e avrebbero potuto  prendere a fitto quei prati sulla costa del Marin, ancora una guerra che se lo portava via. Non era giusto, perché non partivano i figli dei signori, quei giovanotti che continuavano ad andare su e giù vestiti da festa sotto i portici a Cuneo? Che giravano i caffè e i balli fumando sigarette Macedonia e bevendo cichetti. Per loro non valeva la guerra? Le loro madri non avevano gli occhi per piangere come quelli  delle altre madri?
E i suoi erano stanchi. Si asciugò le guancie col dorso delle mani e il dorso delle mani sulle pieghe del gonnellone che le abbracciava i fianchi, molle come un grosso gatto accucciato sul suo ventre. Si avvicinò  alla vista la busta gialla, tutta sgualcita,  l’ultima lettera ricevuta dal fronte. L’aveva letta e riletta più volte, portandola anche al reverendo parroco perché le confermasse ciò che le pareva di capire con la sua stentata lettura…

Rusia ,  7 dicembre 1943
Cara Mamma, fatti tanto coraggio come ò io che tutte le sere dico le orasioni a la Madonna che mi faccia la grassia di tornare ad ambrassarti. Ti scrivo solo ora per non darti dispiacere che tre giorni fa hanno mazzato Giacu di Martin e Bertu Fenoglio con un colpo di cannone dei rusi. Non dir gnente, spetta che arrivi il telegramma alla borgata non dirlo nemmeno al reverendo. Questa Rusia è proprio brutta e penso a la guera che à fatto il mio caro padre  che non è più tornato a casa e mi viene da piangere tutte le notte. Ieri ò fatto la guardia di notte e faceva 35 gradi di freddo e avevo la giassa nei scarponi e taccata alla barba.  Cara madre mandame nel prosimo pacco due paia de calse e una maglia de lana che qui il quipaggiamento non basta mai. E del tabacco perché le sigarete non sempre arrivano in linea e non ci resta che fumar per il freddo e la fame perché anche la gaveta manca sempre di roba. E metti anco castagne secche e farina di meliga che con la stufa nel rifugio che ci abbiamo sotto tera si fa della polenta come le feste grandi.
Non star tropo in malinconia perché sto bene in salute e il tenent Boassone dice che passato sto inverno in primavera i Rusi si straccano e vinceremo e alla santa Pascua  saremo tutti a casa. Il tenent  mi à detto che dovrei andare in congedo perché sono capofamilia di madre vedua di guerra e di fare le carte da mandare qui sul fronte. Vai a raccomandarti dal maresciallo di Boves e anco dal Federale e poi vai a Cuneo al Distretto per la domanda per  questa ingiustissia. Cara mamma guardati bene e anche Catterina che non facia imprudense e in questi tempi grami che presto torno e poi sistemiamo anche la sua dota per darla da sposa a Censo dei Ronchi che anco lui povereto à da vedere le sue in Fransa a far la occupasione.                                                                                             
 tuo figlio Francesco

Ormai la sapeva a memoria come le preghiere alla Madonna che aveva imparato da piccola e la rileggeva col cuore perché gli occhi troppo tormentati da quelle lacrime salate non distinguevano più le parole. Alzò lo sguardo e guardò fuori il profilo della Bisalta  ancora illuminato dagli ultimi raggi di un sole freddo ed opaco, mentre a valle le ombre avevano già scontornato i fianchi dei crinali e le macchie dei boschi. Non le sembrava possibile che il suo Cesco fosse al pericolo delle bombe e della mitraglia quando qui regnava quel silenzio e quella pace. Per lei la Russia era un mondo che non riusciva ad immaginarsi. Glielo descrivevano  come l’inferno con i diavoli che erano i russi ma al posto del fuoco c’era il gelo e la neve. Questo pensiero la sgomentava perché dall’inferno non era mai tornato nessuno…
Quella sera Lena e Catterina andarono a dormire presto dopo una pasto frugale, un po’ di polenta, castagne bollite e formaggio di capra, non recitarono  il rosario come erano solite fare e si coricarono nel caldo della stalla mentre fuori il gelo batteva la valle e il vento sibilava tra i declivi infarinati di brina.
Quella notte Lena non riusciva a prendere sonno. Erano ormai quattro mesi che Cesco era partito, e dalla mente non riusciva a togliersi il pensiero dell’ultimo silenzioso abbraccio.
Era stato all’inizio di agosto. Da una settimana ormai, partivano tutti i giorni  dalla stazione di Cuneo le tradotte per la Russia, piene di ragazzi, di casse, di muli. Aveva saputo dal figlio di sua cugina Antonia che l’indomani sarebbe toccato al reparto di Cesco. Così insieme a Catterina  aveva preso la prima corriera che partiva da Boves  ed era giunta di mattina presto alla stazione dove  era stata travolta dalla confusione. Da una parte i civili, accorsi a salutare i cari, dall’altra una marea di militari che marciavano, ufficiali che urlavano, gruppi di soldati non inquadrati che improvvisavano piccoli cori, o spostavano casse, conducevano muli e ogni tanto una donna o una ragazza riusciva ad infilarsi nel trambusto e chiedeva notizie di compagnie, plotoni, squadre per rintracciare un marito o un figlio. Alcune urlavano un nome, sperando di farsi sentire da qualcuno che potesse rispondere. Lena aveva  guardato Catterina sconsolata. Era come trovare l’ago nel fienile….
- Ricordi sulle lettere cosa c’è scritto?-  aveva chiesto di un tratto alla figlia
- Battaglione Mondovì…11^ compagnia-
- Battaglione mondovì!... Battaglione Mondovì!-  Si erano messe a chiedere in giro e chiunque incontrassero, militari o civili che fossero.
- Di là, in fondo, sul sesto binario, vicino al serbatoio dell’acqua-  aveva risposto provvidenzialmente un anziano ferroviere che le aveva sentite  nella concitazione generale. E proprio là sotto il serbatoio avevano trovato il loro Cesco, con la sigaretta in bocca, bello nella sua divisa d’alpino, gli scarponi lucidi, orgoglioso di quel cappello con la penna.
-Mamma… Catterina!- e si erano uniti in un abbraccio silenzioso e intenso in cui  Cesco  era ritornato il figlio contadino e le donne piangevano le lacrime delle madri e delle sorelle. Non ci fu il tempo per altro. La lunga tradotta si era messa in cammino ed incalzati dagli ufficiali gli ultimi ragazzi erano saltati sui vagoni issati dai compagni che offrivano loro le braccia.
-Ciau Mamma… ciau! Non state in pensiero tornerò presto! Ciau!-
Quel ricordo le era rimasto impresso, palpitante, e più i giorni passavano più si scavava nella sua memoria con una limpidezza sconcertante. Così come i colori lividi di quell’alba estiva e gli odori, quel misto di ferro e olio bruciato dei treni frammisto all’acre odore di fieno e di sterco di mulo. Quattro mesi, ma le sembrava accaduto quel mattino.
Quella notte  non prendeva proprio sonno. A brevi intervalli il latrare dei cani lacerava  rabbiosamente il silenzio; si agitavano come quando c’era qualche animale selvatico che si avvicinava troppo alla stalla. C’è qualcosa, forse qualcuno, pensò Lena. Anche Catterina si era svegliata e guardava inquieta sua madre mentre questa si alzava e si copriva con un pastrano spesso e calzava le zoccole.
-Sarà la volpe - le disse per tranquillizzarla - ieri ha fatto la veglia al pollaio dei vicini. Vado a spaventarla-
Uscì dalla stalla e subito una carezza pungente le frizionò le guance e una folata gelida insinuandosi  attraverso il pastrano male abbottonato  le percorse il corpo, dal ventre allo stomaco. I cani al suo apparire smisero di abbaiare e approfittando della porta aperta si infilarono nella stalla accucciandosi in grembo a Catterina. Lena si alzò il bavero e ritrasse le dita dei piedi non sufficientemente protette dai calzettoni di lana. Alzò lo sguardo e le sembrò che la mezza luna brillasse come se fosse piena. Una luce perlacea si diffondeva nella valle che così illuminata le si mostrava in tutto il suo maestoso silenzio; vedeva i tetti di Boves, il campanile, qualche camino che fumava anche nella notte più fonda e ancora più giù la pianura, qualche luce lontana e ancora più in fondo le altre montagne del cerchio alpino, il Monviso e le sue valli, brillanti con i loro fianchi innevati, illuminati da quella luna eccessiva. Era l’aria tersa a rendere gemmea quell’atmosfera notturna. Lena fece il giro della baita, si avvicinò al fienile e nulla le pareva fuori posto. Continuò il suo giro passando davanti al pollaio. Qualche gallina si svegliò e iniziò a chiocciare ma subito tutti i suoni si spensero. Non è la volpe, pensò Lena, altrimenti i cani non sarebbero rientrati. Volse lo sguardo a monte. Il profilo imponente della Bisalta incombeva sulla borgata. Anche su di là la luna illuminava le creste, i costoni e il lento digradare verso il colletto che riparava le case. Luce come giorno, ma l’inquietudine era quella delle notti più nere. Ad un tratto le sembrò di scorgere un’ombra passare vicino alla fontana pietrificata nel ghiaccio. Fece due passi più lunghi e cercò conferma di quell’ impressione. Sì, c’era qualcuno, non un’ombra, un uomo, i piedi avvolti in stracci di coperta, un cappotto, un cappello…
-Cesco… Cesco…O maria benedetta… il mio ragazzo…! Sei tu? Sei tornato? Vieni… vieni qui, fatti abbracciare!-
Ma l’ombra svanì muta. Riapparve più in là, sulla mulattiera che saliva al colle, ma come Lena si avvicinava l’ombra si allontanava sempre più veloce-
-Cesco fermati.. ti prego fermati. Sei Tornato?- Ma l’ombra svanì nuovamente senza più riapparire. E Lena si lasciò cadere sulle ginocchia e giungendo le mani iniziò a recitare l’Ave Maria. Quando tornò nella stalla Catterina non scorse il suo volto sfigurato e non la sentì proferir parola. Lena si distesa al suo fianco sprofondando nel pagliericcio, ma mentre Catterina si riaddormentava  ignara lei vegliò tutta la notte recitando quel rosario che la sera prima aveva trascurato.
Il ricordo dell’ombra che era venuta a trovarla quella notte la perseguitò per molti giorni a venire. Sbrigava le faccende di casa, poi nella stalla a dar da mangiare alle bestie e nelle ore più tiepide a far legna nel boschetto dietro casa, e sempre quel pensiero. Era il suo Cesco? E perché non le aveva risposto, perché era andato via? Che non stesse bene? Magari la guerra gli aveva spostato qualcosa nella testa e non aveva più riconosciuto la sua casa…
E intanto  i giorni passavano e il gelo si faceva ancora più padrone della valle e piano piano si insinuava nei cuori lacerati da tanta afflizione. Arrivò il terzo Natale di guerra, mesto come non mai, arrivò la neve, tanta come erano anni che non si vedeva, quasi che l’inverno non pago di straziare le carni nelle pianure del Don volesse allungare l’artiglio anche sulle famiglie di quella povera armata che aveva osato sfidarlo. E inconsapevoli di tanto orrore le madri e le moglie tutti i giorni scendevano al piano ad aspettare la corriera della sera che arrivava da Cuneo con il sacco della posta. Il postino pietoso assecondava la loro ansia e smistava lì, in piedi, sulla piazza, appena l’autista gli consegnava il sacco, le lettere dal fronte, le più sgualcite, le più impellenti. Ma da qualche giorno Lena era scesa invano a Boves perché non c’erano lettere per lei. Il postino leggeva a voce alta i nomi delle famiglie   - Dho!.... Gastaldi…! Tortone...!-  e mani concitate si alzavano e donne si facevano largo  fra la piccola folla prendendo quelle buste come se ricevessero la comunione. Anche se da un po’ di tempo non si sentiva  il nome di Bergesio Lena non si arrendeva e continuava a scendere. Finché dopo due settimane d’attesa, fu premiata e nei primi giorni dell’anno nuovo arrivò un sacco pieno. Questa volta a tutte le donne in attesa fu consegnata la lettera tanto sospirata  Lena quando la ebbe in mano andò subito a leggerla  nell’androne dell’Osteria dei Tre Limoni, appoggiata al muro sotto il lampione dell’entrata per pararsi dal freddo. La scorse l’oste attraverso la finestra e la invitò ad entrare e a sedersi che le avrebbe offerto un surrogato di caffè perché c’era da buscarsi un accidenti lì fuori. L’oste come il prete conosceva i casi di ognuno e ringraziava il cielo di non aver figli soldati. Lena lo benedì con gli occhi rossi e postasi in un cantuccio vicino alla stufa iniziò a leggere.

Don, 2 gennaio 1943
Cara Mamma, ti ringrasio del pacco che ò ricevuto. Abbiamo fatto tanta festa con Tonio e Menico dopo la guardia di Natale. Ò pensato tanto a voi nella Frassione a celebrare il Santo Natale mentre noi qui a far la guardia ai Rusi sensa Dio a gelare nei nostri rifugi sotto tera e sempre a pensare a voi. È venuto il cappelano a trovarci e a darci la comunione  e poi à fatto un poco di allegria con noi poveri disgrassiati. La moglie a Tonio ci ha fatto un altro figlio e lui à chiesto al capellano se poteva fargli le carte per il sonero e il capellano ha detto che dalle leve del 17 non danno più soneri così Tonio si è messo a piangere come un vitellino. Io spero tanto che voi state bene e in salute.  Non mi ai più detto delle bestie, se è nato il vitello nuovo e se ai trovato a comprare del fieno a buon prezo. Ne avete fatte di tume per l’inverno? Quando torno a casa prometo che non avrò mai gnente da lamentarmi e vi aiuterò in tutto e non vado più in osteria nel tempo dei fieni perché ò visto qui cose che non le credereste se non ve le conto poi quando torno. Da qualche giorno si sente un gran bordello al nostro fianco e si dice che i Rusi anno fatto un ataco grosso ma anche là ci siamo noi alpini e alora non passeranno perché la piuma non si piega mai. Anco adesso ci sono i scoppi e sembrano i fuochi della festa di S.Lorenso ma tu cara Mamma stai tranquilla che noi qua siamo ben sicuri e ci abbiamo i nostri cannoni pronti per darli la lessione. Non farti sagrin se non ricevi mie notissie per un po’ di tempo perché quando ce tanto bordello la posta non parte subito. Ti prometo che tornerò presto a casa ad ambrassarti te e Catterina e avrò tante di quelle cose da contarvi di sera nelle stalle quando si fa la vjà che verranno a sentirmi fin da Chiusa e da Peveragno tanto ò visto e patito.
Tuo figlio Francesco

Lena arrivata alla fine ritornava a quel “Cara Mamma” che le stringeva il cuore e rileggeva tutto come fosse una lettera nuova. Ormai era un’ora che come una statua rimaneva seduta vicino alla stufa e passava e ripassava tra le dita quel foglio e l’oste non osava avvicinarsi. Finalmente, dopo l’ennesima lettura rinchiuse la lettera nella busta e rimessasi il caldo pastrano che aveva adagiato su una sedia vicino al fuoco, ringraziò per quella inaspettata ospitalità e ritornò su in baita dove Catterina era intenta a cucinare un po’ di polenta.
Nei giorni seguenti nevicò ancora e di notte le temperature scesero paurosamente fissando in un’immobilità di cristallo la borgata, la valle e tutto il fianco della Bisalta fin sul colle.
I lavori si ridussero al minimo. Si accudivano le stalle, si tesseva un po’ di lana  attendendo  il ritorno del bel tempo e tutti i giorni le donne scendevano al piano ad aspettare la corriera che però verso la fine di gennaio smise di portare lettere degli alpini. Dopo un po’ di giorni le donne si erano parlate fra di loro e si erano rese conto che  nessuna aveva più ricevuto lettere dopo quelle spedite la prima settimana dell’anno. Chi dava la colpa al gran freddo che bloccava gli aerei, chi ai Russi che avevano intercettato i pacchi postali, chi al governo….
Lena pensava alla sua ultima lettera e alla promessa di Cesco, a quell’abbraccio che li avrebbe uniti al suo ritorno e avrebbe lenito tutto quel dolore e si faceva coraggio, continuando a scendere al piano tutte sere dopo aver svolto i lavori.
Ma nessuna lettera giunse più con la corriera,  né in quei giorni, né in primavera, né  mai…

FINE

Opere

Sant’Albano e Santalbanesi attraverso il ‘900

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PREFAZIONE

Quest’opera nasce dall’incontro di due distinti lavori che trovano in questo libro una sintesi naturale, richiamandosi e completandosi reciprocamente. Il primo è costituito dalle memorie della maestra Rosa Trombetta, scritte tra il 1977 e il 1983, dattiloscritte e proposte all’attenzione di qualcuno che non le reputò degne di interesse e perciò dimenticate nella polvere dell’archivio comunale. Il secondo lavoro è costituito dal materiale di un’apprezzata mostra fotografica che un gruppo di giovani santalbanesi allestì nel 1991, dal titolo “Immagini del tempo”, e costituita da circa centotrenta immagini di Sant’Albano e di Santalbanesi, attraverso tutto il ‘900. L’idea di preservarne la memoria e di trasformare il materiale di quella mostra in una pubblicazione ha coinciso col fortunato ritrovamento dello scritto di Tòta Rosa, permettendo la realizzazione di un documento storico di particolare rilevanza: un racconto di un tempo andato irrimediabilmente perduto accompagnato dalla testimonianza fotografica dei suoi protagonisti, del loro lavoro, dei riti, delle feste, di una società contadina che nel giro di qualche decennio è stata spazzata via dalla modernità.
Rosa ne fu una testimone attenta, critica, e mai distaccata. Apparteneva a quella piccola borghesia, laboriosa e colta, capillarmente diffusa nella realtà provinciale e perciò collocata dentro la società che descriveva e di cui faceva attivamente parte, seppur in posizione privilegiata.
Nelle sue pagine ricorre spesso il paragone tra il tempo andato e il suo oggi, che ricordiamo si situa attorno al 1980, dal quale emerge costantemente un sentimento di nostalgia e di rimpianto: quella società arcaica, quasi immobile da almeno un paio di secoli, immutata nei suoi valori, nelle sue tradizioni, si è velocemente trasformata dopo la Seconda guerra mondiale al punto da diventare irriconoscibile. E’ la trasformazione dell’Italia – dell’intero Occidente se vogliamo- proiettata verso qualcosa di nuovo, moderno o postmoderno che dir si voglia.
E’ la Grande Storia che si compie nutrendosi di innumerevoli piccole storie come quella di Sant’Albano e della sua comunità. Ecco che allora il ‘900 si caratterizza come secolo di cesura che segna il tramonto di un mondo e la nascita di uno nuovo, in cui nuove tecnologie trasformano il lavoro e la vita di ognuno, i valori cambiano, così come i rapporti tra le persone.
Rosa osserva, Rosa ricorda…rimpiange.
Non ripropone il retorico rimpianto “dei bei tempi che furono”, vezzo senile di chi non si accorge di rimpiangere solo la sua giovinezza, ma coglie l’essenza di quel mondo: la fatica del lavoro, la povertà, l’ignoranza diffusa, caratterizzano da un lato un’esistenza precaria ma spingono altresì gli uomini a sentirsi più vicini, a praticare una solidarietà autentica, consapevoli che solo nella comunità si trovano le forze per tirare avanti.
E allora tutto diventava corale, la gente si riunisce nelle processioni, nelle feste, si aiuta nei lavori. Notiamo a questo proposito i passi in cui Tòta Rosa ricorda l’intervento costante del gestore dell’Albergo Nazionale con i suoi cavalli per aiutare i carri nella salita di San Defendente, o l’esempio del bucato fatto al fosso, o la mietitura o la trebbiatura, che si trasformano in un vero e proprio rito collettivo attorno al grano, ben più che un semplice alimento in tutte le culture che vanno dal Mediterraneo alla Mesopotamia; ecco poi emergere i personaggi, da Giòrs panaté - ancora il grano, il pane- a Ghitin, definita maestra nel fare il bucato, a Tancin il portalettere, combattente della Grande Guerra e fedele per tutta la vita al suo delicato servizio, a Giaco Toin-na con la sua umanità menomata ma profonda; uomini e donne che non vivevano solo di una loro individualità ma che diventavano personaggi in quanto attori sociali, inseriti nella loro comunità. E ancora Rosa rievoca la dimensione del sacro, come la venerazione della Madonna Pellegrina, il calendario delle processioni con le Compagnie in divisa, tante processioni a scandire i tempi della società contadina, a manifestazione la fede condivisa, rinsaldare il sentimento di appartenenza.

Rosa racconta, Rosa spiega…testimonia.
E’ precisa, minuziosa, quando ci racconta delle fasi dell’allevamento del baco da seta, di come si faceva il bucato, e forse con un po’ di rimpianto degli usi matrimoniali -lei che non si è sposata. E’ partecipe quando rievoca il Natale di guerra del ‘44, con l’angoscia che pervade il paese e la stanchezza per una guerra disumana; è toccante e poetica quando ci lascia il ritratto indimenticabile di Giaco Toin-a, che chiude con grande umanità le sue memorie.
Ed è a tutti quelli che ci hanno preceduti, a quella società povera, ma laboriosa, incolta ma solidale, capace nonostante tutto di integrare un povero cristo come Giaco, di accoglierlo come un figlio sfortunato senza emarginarlo, che noi guardiamo ammirati e che riconoscenti ringraziamo per tutto ciò che abbiamo ricevuto, in beni materiali e morali.

≈≈≈≈

Rosa Trombetta nacque a Sant’Albano Stura il 12 aprile 1902, figlia del dottor Pietro trombetta, farmacista e di Teresa Paschiero, casalinga.
Rimasta orfana della mamma all’età di sei anni, dopo aver frequentato le scuole elementari, entrò nel collegio delle suore domenicane a Mondovì, dove si iscrisse all’Istituto Magistrale “Rosa Govone”. Conseguito il diploma, si trasferì a Lajon, in Alto Adige, per acquisire un punteggio utile ai fini della carriera di insegnante.
Ritornata a casa all’inizio degli anni Trenta, insegnò ininterrottamente prima a Ceriolo, poi a Sant’Albano, fino al raggiungimento della pensione.
Si dedicò nel corso della sua vita a varie attività sociali, ricevendo pubblici attestati di benemerenza.
Venne premiata per l’opera svolta a favore della bachicoltura, pratica un tempo assai diffusa dalle nostre parti, e fu anche insignita della medaglia d’oro al merito per la Pubblica Istruzione.
Fu tra i soci fondatori della Cassa Rurale e Artigiana ( ora Banca di Credito Cooperativo di Sant’Albano e Casalgrasso), e madrina della locale sezione dell’A.V.I.S. santalbanese.
Diresse per anni la scuola di canto e si adoperò come organista accompagnando le funzioni religiose.
Rosa si spense il 1 febbraio 1991, tra l’affetto, la stima e la riconoscenza di chi ebbe la fortuna di conoscerla.

ROSA TROMBETTA

MEMORIE DI UNA MAESTRA DI CAMPAGNA

Introduzione: Sant’Albano Stura di Davide Garelli

1. Il Paese
2. Storia della farmacia del paese
a. servizio sanitario: la farmacia
3. La scuola del passato
a. istituzione della scuola media
4. Mestieri e lavori d’altri tempi
a. il bucato
b. tempo di raccolta: la mietitura e la trebbiatura
c. l’allevamento del baco da seta
d. lo spazzaneve
e. i magnin
f. il maniscalco
g. il moleta
h. i tessitori
i. gli spazzacamino
5. Commercio
a. commercianti d’altri tempi
6. Mezzi di trasporto
a. la ferrovia economica
b. regolarità nei trasporti
7. Illuminazione
8. San Defendente
9. Feste d’altri tempi
10. Le processioni
11. Svaghi di altri tempi
a. la giostra di San Liberato
12. Tradizioni locali
a. la porà
b. la ciabra
c. le lvraie
d. usanze matrimoniali
13. Le campane
14. Natale di guerra
15. La banda musicale
16. Avis
18. Personaggi
a. Pinòto e Giors panatè
b. Gioanin Saruné e Teresin-a Saronera
c. Tancin il portalettere
d. Contamara, Silia e gli altri
e. Giaco Toin-a

L'amante perfetta

Ecco un estratto del libro ...

LEO SI E’ PERSO

Torino è femmina.
Sorride e ti osserva sorniona, languidamente adagiata ai piedi della sua collina.
Torino ti guarda e ti illude di lasciarti giocare con lei.
La vedi passiva, la credi discreta, la cerchi e la ami, le offri la corte di chi vuole inchinarsi al suo fascino fine, di chi vuole lasciarsi rapire dai suoi ambigui richiami. E rimani ammaliato da quelle sue foschie d’autunno che nascono attorno alla Gran Madre, e più su, sul Monte dei Cappuccini, e scivolano al Po, andando a disperdersi tra il reticolo delle vie del centro.
Torino è un frutto maturo che non osi staccare.
E’ il frutto proibito che ti farà smarrire la tua innocenza, rivelandoti al mondo per quello che sei: un’anima illusa e un po’ presuntuosa che credeva di avere capito qualcosa della grande avventura di cui era prima attrice.
Dopo il suo incontro ti scopri insicuro, e ti chiedi il perché di tanto dolore, dov’è che hai sbagliato, perché hai ceduto ….
Niente è mai come sembra.
Non lo è la sua preziosa bellezza, né il richiamo del suo elegante passato, a volte un po’ austero, a volte confuso nella sua leggerezza. Non lo sono le stelle, le placide stelle sopra il suo cielo d’incanto, sopra la Mole che svetta, né il luccichio di mille luci tremanti sopra Superga, il loro riverbero fioco sullo specchio scuro del Po.
Nulla è mai come sembra.
Non lo è quel reticolo di portici aperti che accompagnano le vie del centro e incorniciano piazze e piazzette, illudendoti di darti rifugio e di metterti in salvo.
Lei profuma di caffè. Aroma forte, a tratti stordente, che ti prende di dentro evocando ardori che si consumano in fretta e ti lasciano esangue.
Non vi è una forza più intensa della sua ostinata bellezza che ti propone di metterti in gioco, di imparare a volare più in alto, oltre le torri di Palazzo Madama, oltre la torre di S.Giovanni, per aprire gli occhi e capire quanto siano tenui le tue certezze, illusorie le evidenti apparenze, palpitanti le celate passioni.
A Leo sembrava incredibile perdersi a Torino, la sua amata Torino.
Le sentiva pulsare il cuore e percepiva il calore, ora di madre, ora di amante, ora di amica o sorella. E invece è accaduto, così all’improvviso, senza alcun segno che potesse allarmarlo, o fargli intuire ciò che sarebbe successo.
E Leo si è perso.
Non ha retto la sua fragile anima, non l’ha salvato la sua esperienza del mondo.
Leo fa un lavoro tremendo: mettere a nudo anime e vite di chi passa il tempo a celarle anche a sé stesso, di chi consuma i suoi giorni a simulare e a dissimulare amori, odi, crimini o passioni. E Leo lì, a scavare, per portare alla luce ciò che con tanta caparbia fatica è stato sepolto.
Lavoro immane, ingrato, sempre straziante perché ogni volta il disvelamento provoca traumi, a volte tragedie.
Ma quello è il suo lavoro e in tutti quegli anni ha recitato solo e sempre un’unica parte, anche quando entrava con inaspettata violenza nelle vite degli altri e viveva dentro sé stesso le lacerazioni di un’umanità sofferente.
Ne era sempre uscito indenne.
Non quella volta, non con Marianna.
Niente è mai come sembra e Leo è caduto nel vortice che l’ha risucchiato.
Torino seduce e frastorna. E’ discreta, non esibisce la sua bellezza, non te la impone e ti chiede di non soffermarti sulle vacue apparenze.
Leo lo sa che lei è intrigante e non è femmina come le altre.
Ti chiede di esporti e di guadagnarti le sue attenzioni, di meritarti il suo sguardo e la sua disponibilità a farsi fare la corte.
Leo ha subito la sfida.
La cerca, la segue, la osserva curioso ma qualcosa si è già messo in cammino ed è un viaggio senza ritorno, un consumarsi senza conforto.

1. IL SENATORE

La sala conferenze dell’hotel Principe Amedeo era ancora semideserta e le poltroncine blu dominavano la scena.
Il colpo d’occhio era suggestivo. L’ampio padiglione era disposto ad anfiteatro; in basso, al centro, un palchetto un poco sopraelevato sul quale troneggiava un tavolo lungo, con una mezza dozzina di sedie. Il brusio dei pochi convenuti rimbombava sulle pareti per ricadere sulle persone che assorbivano come spugne il loro stesso vociare.
Nonostante l’ora, erano passate da poco le nove di sera, il locale stentava a riempirsi e lo spazio dei relatori era ancora occupato dai tecnici che si indaffaravano a controllare i microfoni e a sistemare le ultime luci. Altri giovanotti solerti affiggevano su pannelli mobili manifesti sui quali campeggiava la gigantografia sorridente del Senatore.
Leo era arrivato presto e non si era stupito di trovare così poca gente: il caldo di quell’estate torrida aveva svuotato Torino e i pochi superstiti non smaniavano certo di venire a rinchiudersi in una sala d’hotel. Vagò un po’ per la sala studiando da lontano i convenuti, poi attaccò bottone con un paio di distinti signori di mezz’età, nella speranza di raccogliere qualche informazione preziosa, rimanendone però ben presto deluso. Rinunciò a fumarsi una sigaretta, cosa che l’avrebbe costretto ad uscire dalla sala, e continuò a guardarsi in giro alla ricerca di qualche personaggio interessante che avrebbe potuto essergli utile.
Si avvicinò anche ad un gruppo di giornalisti: con un po’ di fortuna, pensava, sarebbe incappato in qualche indiscrezione, ma a parte alcune battute salaci sull’addetta stampa del Senatore, anche qui nulla di interessante. Apprese poi che il dibattito sarebbe iniziato con un’ora di ritardo.
Bene, questo contrattempo non gli dispiaceva, così si spostò all’American Bar della hall, andando ad appollaiarsi su uno sgabello al fondo del bancone e richiamando l’attenzione di Paride:
- Ciao Paride, mi dai una birra? –
- Ciao, come stai? E’ da un po’ che non ci si vede-
Paride gli spillò lentamente una pinta di “Super Baladin”, la sua preferita, con una dedizione ammirevole e gliela porse sostandogli davanti, pronto a intessere con lui una di quelle conversazioni che tanto lo intrigavano.
- Come mai da queste parti Leo?-
- Sono venuto a sentire il Senatore… ma non si decide ad arrivare. I politici se la prendono sempre comoda. E tu, che mi dici?-
- Bene, bene, tutto normale. Solita vita, solito via vai…-
Paride mal celava la sua irrefrenabile curiosità. Sperava che Leo gli dicesse qualcosa di più, ma non osava essere troppo indiscreto.
- A cosa stai lavorando Leo?- Chiese, non riuscendo più a trattenersi.
- A un paio di casi… Una sparizione e un possibile spionaggio industriale-
- Qual è il più intrigante?-
- Ah! Il secondo, senza dubbio. Specie se poi verranno fuori episodi di sesso, droga e…
- …Rock’n roll!- Chiosò il barman canticchiando.
Paride stava eccitandosi.
Approfittando dell’assenza di avventori si versò un bicchierino del suo whisky preferito, un Glen Moray d’annata, e appoggiando i gomiti al bancone si sporse verso Leo e quasi gli sussurrò all’orecchio:
-Senti Leo… Invece… Com’è poi finita la storia di quella prof di Liceo che era scomparsa?-
Leo era consapevole che doveva pagare pegno per ottenere ciò di cui aveva bisogno.
- La Mori?
- Non ricordo come si chiamasse, quella biondina di cui hanno parlato tutti i giornali il mese scorso…-
- Sì è la Mori, Valentina Mori. Era collega della mia ex moglie sai? Ha lasciato il marito, un avvocato affermato del foro di Milano, due figli e si è volatilizzata…-
- Sparita del tutto?-
- Per le cronache e i pettegolezzi sì. In realtà sappiamo che è in Francia, in dolce compagnia… il padre di un suo studente,-
- E dove in Francia?-
- In Costa Azzurra, tra Montecarlo e Saint Tropez . Sembra che abbia rastrellato le finanze del marito e stia facendo la bella vita col nuovo compagno-
- E il marito?-
- Cornuto e mazziato. I soldi sottrattigli erano dei fondi in nero.
Non ha potuto denunciarla. Lui poi aveva un’amante, era risaputo nel suo ambiente, per cui non ha nemmeno potuto imporre le sue condizione nella separazione…-
- Bel colpo la Valentina! Ma tu, tu la conoscevi?-
- Sì, l’ho conosciuta una sera a una cena. Sembrava una suorina; è stata una sorpresa scoprirla amante diabolica-
- Tutto risolto quindi?-
- Direi di sì… a meno che non esca qualcosa di nuovo o qualcuno non faccia secco qualcun altro-
Paride si lisciò il papillon della divisa, visibilmente compiaciuto: la sua mente stava rielaborando il tutto, immaginando i particolari, sicuramente i più piccanti, che Leo non gli aveva voluto confidare. Si era come estraniato.
Leo non disturbò questa suo personalissimo immaginifico onanismo, si gustò imperturbabile la sua Super e solo dopo averlo visto ritornare coi piedi per terra richiamò la sua attenzione chiedendogli senza preamboli:
- Che mi dici del Senatore?-
- Menicucci? E da quando ti interessi di politica?
- Mi interesso di lui, non di politica-
- Un cavallo di razza. Non condivido una virgola di quello che pensa e di quello che dice, ma lo ammiro. E’ coerente, ed è pulito sai? Non sembra vero coi tempi che corrono ma è così: non un’ombra.-
- Non lo conosco… Che storia ha?-
- Carriera classica. Attivista nella federazione giovanile, poi segretario. Poi direttore del giornale del partito e da tre legislature Senatore. Alcuni incarichi in commissioni parlamentari, poi sottosegretario o qualcosa di simile e ora ritenta la rielezione alla prossima tornata elettorale; se la spunta questa volta fa il ministro-
- E’ pulito, sei sicuro?-
- Ci puoi giurare. E’ un uomo tutto di un pezzo, te l’ho detto. E’ fuori dal solito giro di favori e mazzette. Non si è arricchito da quando è stato eletto. La sua carriera è stata lenta ma lineare, senza scorciatoie-
Leo fece cenno di credergli. Il quadro presentatogli era coerente con le informazioni che già possedeva, ma sentiva che c’era qualcosa che gli stava sfuggendo.
- E della sua addetta stampa? Che mi dici ?-
- Gran donna vero? Roba da farti girare la testa. Ecco, quella potrebbe rappresentare un guaio per il nostro…-
- In che senso?- Chiese Leo fingendo di non raccogliere l’insinuazione.
- Nel senso che il Senatore è sposato-
- Ah!…E se la intende con la segretaria? -
- Adetta stampa, non segretaria… ! Beh, è quello che si dice nel giro. Nulla di certo, non li hanno ancora pizzicati, però la situazione è molto compromettente…anche lei è sposata. Suo marito è uno dei più grandi importatori di caffè in Europa, una famiglia molto ricca e molto in vista, i Parodi- Paride gli confermava ciò che il suo intuito gli aveva già suggerito. Ma la cosa al posto di solleticargli l’orgoglio per quel suo fiuto da vecchio segugio gli provocò un fondo d’amarezza, un sentimento indistinto che gli lavorava lo stomaco. Non si capacitava di una simile sensazione ma da quella sera iniziò a lamentare quello strano malessere che lo avrebbe accompagnato per i giorni a venire. Ormai aveva saputo qualcosa, non molto, ma abbastanza per ritenersi moderatamente soddisfatto. Finì con un ultimo sorso la sua rossa ambrata, salutò con riconoscenza Paride che dal fondo del bancone lo ricambiò con un sorriso e ridiscese al piano di sotto, nella sala congressi.
Nel frattempo un discreto pubblico aveva preso posto e Leo si confuse fra i convenuti sfoderando un taccuino elettronico e adottando postura e modi da giornalista della carta stampata.
Il Senatore era finalmente arrivato e si era sistemato sul piccolo palco, sedendo al centro del tavolo dei relatori. Alla sua sinistra prendevano posto un giovane portaborse e un politico locale, del suo partito, entrambi solerti ad annuire con un ampio sorriso ogni qualvolta il Senatore li gratificava di uno sguardo, o di un cenno, anche involontario. Ma alla sua destra catturava l’attenzione, e non solo quella di Leo, una splendida donna dai capelli neri e lunghi, finissimi e lucenti come seta. Valutò che poteva avere sui trentacinque anni e il fascino che emanavano quel suo sguardo intenso, quei suoi occhi color azzurro marino, gli suggeriva che quella creatura avrebbe potuto fare tutta la strada, o le strade, che si fosse sognata di percorrere.
Leo prese a fissarla a lungo: il volto delicato, le labbra sottili, il naso ben proporzionato, quasi una bambola di porcellana dai tratti orientali. L’apparente sua fragilità contrastava con i suoi modi risoluti e con l’ energia, quasi magnetica, di uno sguardo a cui Leo non riusciva a sfuggire.
Il Senatore parlava, i leccapiedi annuivano e la bella alternava l’attenzione dalla platea a quella più riservata a certi documenti che aveva sott’occhio, davanti a sé, in una cartellina di pelle.
Leo si chiese se in qualità di addetta stampa avrebbe rilasciato qualche dichiarazione, desiderava sentirne la voce. Ma la donna taceva e dopo un po’ si immerse completamente nei suoi fogli, appuntando qualcosa su alcuni di essi, disdegnando completamente il pubblico nonché i flash dei fotografi i quali cercavano di inquadrarla accanto al soggetto principale.
Nonostante un certo suo fascino personale, il politico perdeva charme vicino alla sua collaboratrice.
Leo si mise il cuore in pace e cercò di seguire il dibattito che scaturì dopo l’intervento dei relatori. Il Senatore si dimostrava molto abile e rispondeva in maniera sicura, dando l’impressione di riuscire a soddisfare almeno in parte, se non a persuadere del tutto, ogni interlocutore. Paride non si era sbagliato: quello era un cavallo di razza, e aveva pure una buona scuderia.
Leo provò ad immaginarlo ministro della repubblica. Sarebbe stato perfetto.
Il Senatore Menicucci stava preparandosi a raggiungere uno degli obiettivi più prestigiosi nella carriera di un politico. E doveva il suo successo alle sue evidenti doti: una di queste era quella di sapersi circondare delle persone giuste. Anche in ciò il Senatore stava dimostrando la sua abilità.
La serata stava per concludersi. I temi toccati avevano stimolato l’intervento del pubblico e la conferenza si protraeva oltre il tempo programmato. La donna da circa mezz’ora aveva preso a guardare l’orologio frequentemente e a lanciare uno sguardo indagatore per la sala.
Questo poteva voler dire che stesse aspettando qualcuno o che avesse un appuntamento che il prolungamento di quell’impegno rischiava di far saltare. Leo scommise sulla prima ipotesi guardandosi un po’ in giro per cercare di scovare il fortunato in sala ma dopo pochi minuti comprese di essersi sbagliato: l’addetta stampa si alzò riordinando le sue carte, tenne lo sguardo basso non rivolgendolo più verso la sala e sfilò dietro le sedie degli oratori. Passando vicino al Senatore gli sussurrò qualcosa all’orecchio posandogli la mano sulla spalla. Scese dal palchetto degli oratori e si eclissò attraverso una porticina di servizio.
Leo la osservò andar via dispiaciuto. Il suo sorriso e il suo passo sinuoso valevano più di mille parole.

SCHEDA LIBRO DA SCRITTURAPURA

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Il tempo migliore
della nostra vita

“ODIO CI UCCISE
CI FA RIVIVERE AMORE
A DIO PACE
AI MONTI UNA CAREZZA, UN CANTO, UN FIORE
A VOI OPERE DEGNE
CHIEDIAMO
AFFINCHE’ IL SOGNO NEL QUALE MORIMMO
VIVA NELLA VOSTRA VITA”

Sacrario Partigiano- Certosa di Pesio-

Estratto da Il tempo migliore della nostra vita
-Bastardi, Bastardi, brutti bastardi...!-
Con la barba di due giorni e gli occhi spiritati imprecava sottovoce e ansimava. Lo sforzo di tenere il passo su per l’erto sentiero che costeggiava, un poco più a monte, la rotabile per Pian delle Gorre, lo atterriva e imbestialiva allo stesso tempo.
-Al diavolo! Avrei dovuto dar retta a Berto, non perdere tempo e salire ieri notte, con il favore della luna. A quest’ora sarei già in salvo-.
L’aria frizzante del mattino lo aiutava a tirare il fiato ma gli spari sentiti prima gli avevano tagliato le gambe. Le ginocchia gli tremavano, a tratti incespicava, imprecava e malediceva quella montagna che non sentiva sua ma che ora risultava l’unico suo possibile rifugio.
La sera prima suo cugino Berto lo aveva ospitato nella sua piccola cascina, a Chiusa Pesio, esortandolo però a proseguire presto, a non perdere tempo: se ormai aveva deciso, tanto valeva mettersi subito in cammino, raggiungere la banda nell’alta valle e non mettere in pericolo lui e la sua famiglia.
-Ci sono fascisti ovunque, lo sai, spie che con una sola parola potrebbero rovinarmi -.
Berto gli aveva parlato da padre di famiglia che capisce al volo il da farsi. Meo invece, come suo solito, si era adagiato in quella molle indolenza che lo aveva intorpidito da quando gli avvenimenti erano precipitati dopo l’Armistizio e la gente si era messa a spararsi addosso; anche quella sera aveva preferito prendere tempo e si era fermato a cena dal cugino.
Al lume stanco di una malandata lampada a petrolio, mezza arrugginita, aveva consumato un minestrone misero come il tetto che lo ospitava: cipolle e patate annegate in un brodo lungo, un po’ di pane nero raffermo e un bicchiere di vino, ma di quello buono, tirato su apposta dalla cantina per scaldare il sangue.
-C’è bisogno di coraggio, cugino- lo aveva esortato Berto versandogli quel Nebbiolo color rubino il cui profumo di prugne e viole sembrava risvegliare speranza ormai sopite e infondere un sussulto d’orgoglio in quegli animi troppo a lungo rassegnati.
- Questa bottiglia l’aveva messa da parte il mio vecchio- aveva continuato Berto – Per giorni speciali. Ecco, penso siano arrivati… - e avevano alzato i bicchieri guardandosi negli occhi, ma senza proclami.
Quella sera nessuno aveva avuto granché voglia di parlare, come se tutto fosse ormai deciso e dovesse capitare senza via di ritorno. Così, appena terminata quella mesta cena, Meo aveva salutato il cugino e la moglie e si era infilato tra le balle di fieno nella stalla, illudendosi di dormire sopra i suoi tribolati casi. Ben prima che il sole sorgesse, dopo una nottata affollata di presenze inquiete, aveva cercato coraggio sgranocchiando quel poco di Raschera che si portava nella giberna e si era tagliato una fettina fine di lardo; subito dopo si era messo in marcia.
Costeggiando il Pesio e controllando costantemente la strada, in un paio d’ore aveva raggiunto Vigna, poi S.Bartolomeo e infine là, dove la valle sembra si restringa, la Certosa. Qui aveva imboccato il sentiero che si tiene più in alto rispetto alla mulattiera che porta ai Gias e con passo deciso si era lasciato alle spalle le ultime cascine attorno al monastero. Pareva una mattina di primavera come ne erano passate tante…..

Scheda racconti “Tra la collina e il mare”. Dal sito di Bruno Vallepiano

L’Alba di PIER

Estratto da L’Alba di PIER
Ancora l’incubo bianco.
Pier fissava la sua Remington meccanica, a quarantotto tasti, da ben più di un quarto d’ora, tempo limite oltre il quale l’impotenza si palesava inevitabile. Conosceva l’asfissia dello scrittore, quella condizione di vuoto assoluto che si riversa sul foglio, attanaglia la gola e man mano che il tempo passa sprofonda nello sconforto.
- Porca miseria, nulla, niente, non mi viene un accidente…-
Con l’ispirazione non si scherza: o si accarezza l’onda al volo, con il tempismo di un surfista, lasciandosi dondolare dolcemente o è finita, il foglio bianco ha il sopravvento e ti divora.
-Porca miseria- ripeteva tamburellando con le dita sul tavolino -Questo non ci voleva - .
Erano ormai giorni che si dibatteva in quella condizione di pellegrino scampato alla grandine, ma non al suo destino: alla Gazzetta di Alba non si presentava più perché in redazione il Cav. Bertoglio gli chiedeva pezzi già pronti da pubblicare, non abbozzi. Caterina, la sua morosa, dopo quell’ultimo periodo di alti e bassi, l’aveva lasciato definitivamente definendolo un disastro sentimentale, senza appello, perché di appelli gliene aveva già concessi troppi. E a suggellare quella invidiabile condizione ci aveva messo del suo anche il padrone di casa, monsù Censo, che proprio quella mattina incontrandolo sul pianerottolo gli aveva ricordato i tre mesi di affitto arretrato. Pier aveva chiesto tempo, pregato e implorato, si era scusato e defilato per le scale lesto come un gatto.
Ormai era notte. Alba dormiva compiaciuta nella sua culla al riparo tra il Tanaro e le sue colline rigate di filari. Una luna capricciosa faceva capolino tra stracci di nuvole nere e rischiarava a tratti l’orizzonte disegnandone un morbide profilo, quasi la silhouette di una donna sdraiata.
Un’altra nottataccia da far passare.
Pier si stappò un Nebbiolo, si versò un bicchiere e sprofondò lo sguardo in quel pozzetto scuro. Cercava ispirazione fra i riflessi rosso mattone che baluginavano alla luce della lampada sullo scrittoio.
- Porco mondo, sono fregato…-
L’incarico che aveva ricevuto dalla Gazzetta era semplice: un pezzo sul vino, un pezzo qualsiasi, tanto per accontentare la nuova proprietà che aveva grossi interessi nella produzione vinicola. Era l’ultima opportunità che il Cav. Bertoglio gli concedeva, poi non avrebbe più potuto far nulla per lui, non rimaneva che apporre la sua firma alla lettera di licenziamento, già pronta a saltar fuori dal cassetto della scrivania.
Pier si avvicinò al bicchiere e subito un bouchet di aromi floreali lo pervase procurandogli indefinibili sensazioni. Pensò che questo lo avrebbe aiutato a scrivere qualcosa di originale. Portò il bicchiere alle labbra centellinandone il contenuto. Al primo impatto un’acidità piuttosto spiccata lo smarrì, ma la nota alcolica che ne seguì ristabilì il giusto equilibrio. Con la punta della lingua raccolse una goccia sul labbro superiore. Lo sorprese una sensazione vellutata di violetta e di ciliegia selvatica, poi il sapore lo investì con tutta la sua imponenza, conquistandolo, saturandogli la bocca di sapori con un retrogusto che si materializzava chissà da dove …
(Pubblicato con lo pseudonimo Giacomo Vissio).

Marguareis,
la versione di Bart

“ Ho avuto pensieri, sì, e prìncipi, e come!
Tante volte ho sentito in me il sapere,
per un’ora o per un giorno così
come si sente la vita nel proprio cuore.
Molti pensieri furono quelli,
ma mi sarebbe difficile fartene parte.
Vedi, Govinda, questo è uno dei miei pensieri,
di quelli che ho trovato io:
la saggezza non è comunicabile.
La saggezza che un dotto tenta di comunicare ad altri,
ha sempre un suono di pazzia”

HERMANN HESSE, -Siddharta-

PROLOGO
Nell’ultimo tratto il sentiero si era ristretto fino a fendere in profondità la roccia, costringendoci a marciare in fila indiana e ad appoggiare le mani alle pareti per procedere spediti. Dopo un’ultima ripida serpentina guadagnammo con fatica il Passo del Duca e ci affacciammo sull’altipiano. Da lì, in leggera discesa, un rigagnolo ci accompagnò col suo gorgoglio soffocato verso il piccolo spiazzo al centro della Conca delle Carsene.
Il sole ormai basso si stava sciogliendo in un lago di fuoco, tingendo la valle di tutte le tonalità calde del cremisi, dell’arancione, del rosa e dell’oro. Il vento era scemato. In questa arena naturale, spoglia e scabra come le nostre anime dolenti, ci ponemmo a sedere, bevendo e sgranocchiando voraci un po’ di pane e del cioccolato, buoni come solo la fatica e la fame sanno rendere tali.
Il volo radente di un gracchio lacerò il cielo e il suo stridulo verso sembrò un rimprovero irato.
“Forza, muoviamoci!” Ci esortò Bart, traducendo il grido dell’uccello, “raccogliamo legna secca e sterpi finché c’è luce”.
Il suo tono era come sempre pacato, ma l’autorevolezza delle sue parole dissipava ogni indugio. Ognuno in cuor proprio coltivava il desiderio di far presto e di non trascurare nulla. Ci alzammo disperdendoci in ogni direzione, e ritornando in breve al bivacco con bracciate di legna secca, rami e sterpaglie.
Formammo una catasta.
Anche Angela si prodigò come poteva, nonostante la distorsione alla caviglia le rendesse faticoso il procedere. Appoggiandosi ad un bastone faceva la sua parte senza lamentarsi. Bart la guardava benevolo e la invitò a sedersi ma lei rintuzzò quella sua cortesia. Testarda come un mulo.
“Abbiamo tanta di quella legna da attizzare anche la tua barbaccia” gli disse stringendo i denti. Bart le rispose con un sorriso lisciandosi scaramanticamente la folta lanuggine che gli incorniciava il viso.
Abbozzò un sorriso infantile, disarmante. Era il più anziano del gruppo ma sembrava quello che avesse patito di meno la salita. Non si lamentava mai, non si risparmiava nell’aiutare chi rimaneva indietro o indugiava nei passaggi più ardui. Sapeva tirare fuori le parole giuste nei momenti opportuni.
Tutto era ormai pronto.
Ci ponemmo a sedere in cerchio al fianco della catasta e accendemmo un fuoco al centro. Tutto attorno l’oscurità aveva avvolto il mondo e solo la tenue luce del nostro falò, con i suoi bagliori rischiarava le nostre figure, ombre nel silenzio.
Ora tutto era perfetto. Il tempo si arrestò.
Angela, seduta al mio fianco, si raccolse i lunghi capelli dietro la nuca con un laccio di cuoio e offrì alle rarefatte vampate di luce il profilo del suo viso e il suo collo di perla. Mi sforzai di non distrarmi guardando lei, e tornai a concentrarmi sul mio respiro.
“Teniamoci per mano” sussurrò Bart, quasi a richiamare la mia superficiale attenzione, come al solito rivolta ai segni, alle forme effimere, alle superfici.
Ero stato così tanto tempo refrattario a cogliere ciò che solo ora, dopo un tormentato cammino, mi pareva autentico, semplice, evidente, che ancora mi stupivo di come fosse facile lasciarsi ingannare dal mondo.
Un veleno leggero, assunto per tanto tempo, ti intossica e ti uccide senza che tu ne abbia coscienza. Fu il fortuito incontro con un uomo straordinario ad aprirmi gli occhi strappandomi da un sonno mortale.
Non avrei mai immaginato potesse cambiarmi tanto, ma Bart mi aiutò a risvegliarmi nonostante la sua figura fosse così incredibilmente lontana nelle apparenze, nella semplicità dei gesti quotidiani, dall’idea di persona fuori dal comune che la mia presuntuosa educazione mi portava ad immaginare.
Invece Bart seppe stupirmi, e stupì anche Angela, più disincantata di me, a volte persino cinica. La colpì con la sua conoscenza profonda di ciò che alberga nel intimo dell’animo di ogni essere e della compassione che ne scaturiva da questa consapevolezza. La colpì con la sua visione dell’esistenza e dei veleni quotidiani che ci impediscono di liberare il respiro e di spiccare il volo.
Bart a noi appariva l’uomo più sereno di questa terra, sicuramente più di noi, incattiviti dagli anni che ci avevano invecchiati invano, dal lavoro frenetico, dalla rincorsa ai falsi obiettivi.
Bart era Bart, e questo ci bastava.
“… E fu così che ricevemmo il dono prezioso, negato a chi non vuole conoscere, a chi guarda sempre gli altri perché non sa vedere se stesso, parla perché non sa ascoltare.
Osservavamo lo sfarfallio tremolante delle fiamme levarsi dal falò, respirando in sintonia col respiro lento dell’altipiano, tenendoci per mano gli uni con gli altri e lasciandoci cullare dalla brezza notturna.
E quello fu l’attimo in cui i nostri cuori si nutrirono di immagini e colori e il tempo rallentò la sua corsa, si sospese per poi riprendere a scorrere veloce travolgendo anni, secoli, millenni che attraversarono i nostri sensi e si dispersero tra i suoni di voci lontane e di canti di civiltà scomparse.
All’improvviso una grande voragine apparve in tutta la sua mostruosa potenza e la vedemmo inghiottire ad uno ad uno tutte le cose.
Ne nacque un pianto sommesso…”

Scheda libro Araba Fenice

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Intervista da Radio Montecarlo



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Il menu di PIER

Estratto da Il menu di PIER
Torino alle 13 è un formicaio di travet.
In un lunedì come tanti, indistinguibile dagli altri giorni della settimana, i dehors brulicano di vita frenetica, come i portici, le piazzette e i caffè del centro storico.
Pier è fortunato.
Il suo ufficio è in via Nizza, quarto piano, dirimpetto l’ala grande di Eataly. Con lo sguardo scavalca la strada e dalla finestra si incolla al via vai continuo di gente agli ingressi, alla ridda di addetti, ai furgoni e agli scatoloni sempre in movimento nel piazzale sul retro. Poi all’ora di pranzo attraversa la via in maniche di camicia, respira profondamente l’aria che è pregna di effluvi di cibo impastati ai profumi che scivolano giù dai boschi dalla collina. Fragranze che si spargono sui fortunati quartieri adagiati sul Po.
Il sole conforta, il tepore rilassa.
Ad Eataly sono ricomparsi i tavolini esterni, e quello vicino alla magnolia, nell’angolo stretto del dehors è il suo, da quando hanno aperto, da quando per la prima volta Simona l’aveva servito:
-Tajarin d’Alta Langa o riso Venere?-
-Riso, grazie-
-Fettina della Granda?-
-Sì, con contorno di pomodorini Pachino e Valerianella di Lerici-
-Da bere?-
-Un calice di Nebbiolo-.
Stesso tavolino, stessa ora, stesso menù. Squadra vincente non si cambia. Pier non ama le novità, lo rilassano le certezze, le consolidate abitudini, il ripetersi ciclico dei giorni, delle settimane, dei mesi…
Ma da qualche giorno il suo mondo è sottosopra e non riesce farsene una ragione; la sua concentrazione sul lavoro latita e non sa più trarre beneficio dalla sua pausa pranzo.
Che fine ha fatto Simona? Non la vede più sfrecciare su e giù tra la cucina e i tavoli, a prendere ordini e portare conti. Quella chioma mediterranea sempre ondeggiante come un frangersi d’onde sugli scogli, quello sguardo intrigante, quegl’ occhi scuri come due olive nere, gli mancano da morire.

Eventi in programma

Giovedì 27 Aprile 2017

Image

Alle 20.45 - Presso la Sede dell'Ecomuseo dei Certosini
in borgata Fiolera - Frazione Vigna (Chiusa di Pesio)
Presentazione del libro
Marguareis, la versione di Bart, Araba Fenice, 2014
Marguareis, alta Valle Pesio. Una montagna, la sua magia, i suoi misteri millenari.

Al termine della presentazione, Macelleria Sergio Gola di San Bartolomeo e Vini Giuseppe Mascarello di Diano d'Alba offriranno una degustazione dei loro prodotti.

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